Domanda: «Qual è il modo migliore per disinnescare una bomba?» Risposta: «Quello in cui non si muore».
Quaranta giorni per tornare a casa tutti interi, dopo che i resti del vecchio capo sono ridotti dentro una "cassetta del dolore" e rimpatriati con il primo volo. Il biondo William James, chiamato a sostituirlo, sembra trovarsi a suo agio di fronte agli ordigni pi complessi o a un uomo imbottito di tritolo, mentre è perduto nella quotidianità americana, fatta di supermercati stipati di prodotti alimentari. E ai compagni non piace, sono diffidenti.
Ma James è una sorta di eroe moderno, che tra Afghanistan e Iraq, e tra mine, bombe e kamikaze, ha già collezionato 900 ordigni e si concede il lusso di conservarne qualcuno sotto la branda. Fede nuziale compresa, perché f parte “degli oggetti che lo hanno quasi ucciso”.
L’armadio del dolore, come recita il titolo inglese, racconta il fronte iracheno (ricostruito in Giordania), o meglio dell'unità di artificieri Victory («Prima ci chiamavamo Liberty. Victory suona meglio») chiamata a sfidare la morte ogni giorno, per disinnescare gli ordigni con un paio di pinze. Come cornice c’è la vita dei soldati, tra bevute e scazzottate, mentre si contano i giorni restanti prima del ritorno in patria.
La regista Kathryn Bigelow struttura un percorso lungo 140 minuti, dove non ci sono sconti, pause o respiri in accesso. Più di due ore al fronte, in tensione continua, ritmo serrato e pochi giudizi espressi. O almeno non sembra questo lo scopo ultimo della pellicola. La giuria del festival di Venezia non l’ha presa in considerazione, agli spettatori è raccomandabile il sangue freddo e molto self control.
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